DLE 0078 okChe cosa hanno in comune il mondo degli anziani affetti da demenza, con quello dei bambini? Nel suo nuovo libro la Dottoressa Anita Avoncelli, ( nella foto a sinistra), con un’illuminante intuizione mette le basi per un nuovo metodo di “cura”, verso chi, man mano perde competenze acquisite che hanno contraddistinto la vita fino a poco prima di ammalarsi.

Persone, non più solo pazienti, dove si ha un’attenzione per la loro storia passata, e per il loro presente che deve ogni giorno insieme al personale sanitario, migliorare per garantire una degenza dignitosa e meno mortificante. Al centro non c’è solo un paziente, ma una persona, che ha bisogno non solo di cure, ma ha un bisogno più’ primario che è quello di non perdere se stesso, nella degenza. 

Il metodo Montessori, ad oggi applicato solo al mondo dei bambini, può essere applicato al mondo degli anziani, dove la cura sta proprio negli ambienti dove sono i pazienti, alle loro relazioni e al loro apprendimento, che a differenza di quello dei bambini che acquisiscono competenze per poi evolversi, quello degli anziani è l’opposto, con il conseguente decadimento e oblio. 

Anita Avoncelli, laureata in Scienze dell’Educazione a Padova, si è laureata con una tesi dell’importanza del cambiamento evolutivo della famiglia in chiave sistemica, per poi specializzarsi in mediazione familiare con consulenza tecnica d’ufficio. Per anni ha lavorato in ambito educaticativo con utenza psichiatrica e disabilita, collaborando poi con strutture che ospitano persone affette da demenza. 

Il libro è una risposta a quello che attualmente nelle corsie dei ricoveri si attua ancora poco o nulla, l’aiuto al paziente a non perdersi e le intuizioni montessoriane sono mirate a mantenere la personalità e il vissuto di una paziente, nel rispetto del suo evolversi. In quest’intervista la Dottoressa  Avocelli, ci spiega che cosa sono state le sue esperienze,  e le sue intuizioni in questo campo: 

 

Schermata 2018-10-17 alle 11.39.311.“Intuizioni montessoriane per la demenza. Una nuova visione di cura”, ci puoi spiegare il titolo e lo sviluppo della tua opera?

Questo titolo è nato da una sensazione, ma anche da una e vera e propria volontà di dare un contributo diverso al panorama letterario che esisteva sull’argomento, attualmente scarso o addirittura inesistente. Partendo da una visione nuova di cura, che è prima di tutto un nuovo “prendersi cura” delle persone affette da demenza, questo libro e questo titolo rappresentano l’inizio di un approccio più “naturale” al mondo della demenza.

In questi anni, il tema della pedagogia e della geriatria sono stati i miei interessi di studio. Inoltre, sono sempre stata affascinata da autori come Reisberg, che ha trattato il tema della retrogenesi nel mondo dell’anziano nelle sue fasi dementigene, o come Montessori, che si è occupata delle fasi di apprendimento dell’infanzia. Il mondo del bambino e dell’anziano sono state le mie “palestre” e queste due realtà mi sono subito apparse molto più simili che diverse, proprio per le modalità in cui si presentano. È divenuto automatico e naturale cogliere le similitudini, anche se i percorsi dell’anziano e del bambino vanno in direzioni opposte, verso il decadimento da una parte, verso la progressione e l’acquisizione dall’altra.

Il Metodo di Montessori può divenire un modello funzionale ad entrambi i mondi perché parte dall’attenzione alla relazione, dalla cura degli ambienti, dall’apprendimento. Il libro si inserisce come una possibilità che, insieme a riferimenti teorici, può fornire degli esempi pratici per chi assiste le persone con demenza, ma soprattutto permette di fare delle riflessioni, che si configurano come delle nuove intuizioni sulla demenza, sui possibili percorsi di assistenza da intraprendere per i nostri anziani. Anche se l’accostamento del Metodo Montessori all’anzianità non è ancora molto diffuso, qualcosa inizia a cambiare nel mondo sociosanitario e questo è il senso di questo lavoro: tentare anche di cambiare visione di cura portandola verso un approccio più umano.

 

2.Quanto hai impiegato alla stesura del libro e che tipo di esperienza lavorativa hai sperimentato prima di arrivare ad ipotizzare un’altra visione di cura sui pazienti anziani affetti da Alzheimer?

 

Erano alcuni anni che stavo lavorando a questo libro, man mano raccoglievo appunti che ordinatamente scrivevo. Ad un certo punto ho sentito l’esigenza di dargli una connotazione ben definita, perché non trovavo nulla in commercio che rispondesse alla mia idea e queste similitudini le riscontravo giornalmente. Credo che ipotesi di visioni di cura sui pazienti affetti da demenza e Alzheimer siano semplicemente nate dal mio percorso esperienziale e quindi alla fine ho messo insieme i pezzi come in un puzzle. Lavoro da quasi vent’anni in tale ambito e credo che l’esperienza diretta possa essere un potenziale importante per mettere a frutto delle possibilità di intervento.

 

3. Come hai messo in relazione lo sviluppo di un bambino con quello di un anziano?

 

È stata una scoperta fatta attraverso l’esperienza che mi ha fatto vedere questa relazione. Prima di laurearmi ho effettuato il tirocinio obbligatorio formativo presso la neuropsichiatria dell’ospedale della mia città e lì non c’erano molti studenti della mia Facoltà che sceglievano questo percorso, per cui non è stato semplice iniziare. Durante questa fase parecchio intensa mi sono avvicinata al mondo dell’approccio sistemico, attraverso lo studio della mediazione familiare e del tema del ciclo vitale, che ho inserito nella mia tesi.  Mi sono laureata nel 2000 presso l’Università di Padova con un lavoro sull’educazione familiare che teneva in considerazione proprio questi aspetti. Quindi i temi dell’infanzia, delle famiglie, dell’educazione permanente e anche della prevenzione erano già nelle mie corde. Ho iniziato a lavorare quasi subito nell’ambito dell’educazione presso il vecchio ospedale psichiatrico S. Artemio di Treviso, dove la gran parte delle persone ancora ricoverate erano ormai anziane. Questa è stata per me un’esperienza fortissima ed umana allo stesso tempo. Ho portato avanti le mie riflessioni sul tema dell’infanzia, delle famiglie e, parallelamente, ogni giorno coglievo continue somiglianze più che dissonanze. Piaget (pensiamo allo sviluppo motorio del bambino) e Lewin (al pensiero dello spazio psicologico di libero movimento) già rappresentavano degli autori che apprezzavo e che in forma ancora ibrida mi stavano fornendo degli interessanti spunti di riflessione.

 

 

4.  C’è una frase di Susan Santag, che citi nel tuo libro, che affermava che «la malattia è un evento che si manifesta non nel corpo, ma nella vita della persona», quindi prima di curare sostieni che è meglio sostenere…come va sostenuto l’anziano che pian piano perde ogni giorno ciò che ha acquisito?

Sento molto vicina questa frase, perché purtroppo quando sperimenti una malattia su un tuo caro, cogli la fragilità dell’esistenza e ti rendi conto che la malattia non è solo qualcosa che ti colpisce nel corpo ma è tutta la tua vita ad esserne drammaticamente sconvolta. Quindi il senso è quello di sostenere la persona non solo sotto il profilo prettamente assistenziale, ma soprattutto su quello umano e di prendersi cura anche di coloro che stanno vicino alla persona e che si trovano a vivere la malattia. Sostenere nell’ambito della demenza vuol dire soprattutto non abbandonare e non tralasciare la possibilità di intervenire, creando un ambiente che permetta di mantenere quell’identità specifica della persona, che deve restare viva e unica anche nella malattia. Le strategie operative, relazionali ed occupazionali non dovranno mai dimenticare chi è quella persona e chi è la sua famiglia.

 

5. Il metodo Montessori sostiene il bambino a trovare la propria via, il proprio sviluppo…l’anziano affetto da demenza che cosa deve trovare? 

L’anziano affetto da demenza non è diretto tanto a trovare un qualcosa di nuovo, quanto a tentare, per quanto possibile, a non perdere se stesso durante la malattia, perché ogni persona è molto di più della patologia, qualunque essa sia.  Non è una ricerca verso una nuova identità, ma un mantenere la propria specificità, la propria identità e le proprie abilità, cioè tutte quelle peculiarità che rendono unica quella persona. Reisberg, nel descrivere la retrogenesi, affronta le tappe “involutive” che la persona affetta da demenza si trova a ripercorrere e anche la Montessori parla di tappe, seppur in chiave “evolutiva” per quel che riguarda il bambino. L’idea è che non si può pensare di chiedere ad un bambino o ad un anziano affetto da demenza delle prestazioni che non siano adeguate alla fase specifica del suo percorso. Per esempio, non si può chiedere ad un bambino di un anno e mezzo di mangiare in autonomia restando seduto e fermo per tutto il tempo, così come non si può pretendere che una persona affetta da demenza mantenga una soglia di attenzione prolungata. Si deve capire in quale fase si trova quella persona, ma soprattutto non perdere di vista chi è, quali sono le sue esperienze, quali le sue competenze, quali i suoi bisogni.

 

6.Ci sono delle strutture dove hai potuto sperimentare questo metodo? 

Nel mio lavoro quotidiano sto tentando di portare avanti questo approccio, sia presso una piccola comunità, dove risulta più semplice riuscire a sperimentare alcune metodologie per quanto riguarda l’ambiente a misura di casa. Poi presso una realtà più grande, una Fondazione, dove ho portato avanti esperienze educative più strutturate, affiancando il lavoro degli operatori e orientandolo secondo attività specifiche e ben strutturate. È una strada fortemente in salita, non semplice, ma credo che in questi anni ci siano più sensibilità e consapevolezza su questa malattia, pertanto una maggiore apertura anche a nuove modalità di intervento che possono risultare di beneficio sia per la persona affetta da demenza, sia per i familiari, sia per gli operatori che si fanno carico di tali situazioni. Ci sono realtà che già incarnano questo spirito di libertà ed autonomia, per cui risultano già su un percorso ben avviato, per altre c’è ancora molto lavoro da fare.

7. Il personale sanitario è formato adeguatamente per sostenere l’anziano affetto da Alzheimer con il metodo Montessori?

Il vecchio detto che “non si è mai profeti in patria” penso calzi a pennello per Maria Montessori. Questa famosa pedagogista ha avuto grandi lodi in tutto il mondo tranne in Italia. Credo che solo ora si stia riprendendo un po’ di adeguata stima nei suoi confronti, ma siamo ormai oltre gli anni 2000. Credo pertanto che si sia perso del tempo prezioso che sarebbe stato più utile utilizzare per sensibilizzare maggiormente le persone, perché il metodo Montessori è prima di tutto un pensiero di vita. Quindi, tornando alla sua domanda, io credo che non ci sia ancora personale adeguatamente formato al metodo Montessori nella misura in cui non è stato dato uno spazio giusto al metodo in diversi campi dell’educazione. Inoltre, non ho trovato fonti letterarie che abbiano messo insieme Demenza, Retrogenesi e Montessori come ho tentato di fare in questo lavoro, per cui penso che il mio libro possa essere solo un punto di partenza, una possibile strada alternativa percorribile, nella consapevolezza che non sia una risposta totalizzante ma una base da cui partire. Il personale va formato.

8. Passiamo tutta la vita ad imparare, ma la maggior parte delle cose che impariamo le dimentichiamo e teniamo solo quelle essenziali…con la demenza che cosa si dimentica maggiormente?

I ricordi del passato recente scompaiono e risulta compromesso il funzionamento della memoria ma, come dice lei, “teniamo solo quelle essenziali”, per cui la domanda che dobbiamo farci è “che cos’è essenziale”? Per ciascuno di noi “essenziale” è una cosa diversa, ma sono soprattutto le emozioni che proviamo che ci aiutano e che riusciamo a riconoscere. Il fatto che un gesto possa farci stare bene è un’esperienza che non si dimentica e diventa un utile strumento per poter entrare in relazione. Anche se poi si verifica un disorientamento a livello spaziale e temporale, quell’”essenziale” è rappresentato dalle emozioni che possono essere percepite e che restano. Io posso dimenticare il nome di un mio famigliare, non ricordare che cosa ho fatto poco tempo prima, chi sia la persona accanto a me, ma l’emozione di serenità o il fatto che una certa azione o situazione mi faccia star bene è qualcosa che riesco a percepire anche nelle fasi avanzate della malattia ed è giusto mantenere.

 

9. Il metodo Montessori può’ essere applicato anche in caso di demenza senile precoce, cioè anche quando il paziente non è cosi anziano?

La malattia di Alzhaimer colpisce generalmente persone che hanno superato i 65 anni, ma non è raro che ci siano casi di persone più giovani e le loro esigenze sono diverse rispetto ad una persona con un’età più avanzata. Chi è più giovane è maggiormente consapevole delle proprie difficoltà e pertanto le stesse aspettative, ma anche le frustrazioni, risultano più forti. I bisogni di autonomia e di libertà sono diversi, così come le prestazioni. Come ho spesso ribadito, questo non è un metodo passepartout e se ce ne fosse uno forse sarebbe il caso di dubitarne. Io credo si debba valutare di volta in volta quale sia la situazione e quali le esigenze, attraverso il grado di compromissione che la persona presenta, ma soprattutto attraverso quali abilità sono conservate per poter permettere un mantenimento di queste e del benessere della persona.

10. Perché il metodo Montessori è ancora poco usato in Italia, nelle scuole, a tuo avviso?

Montessori parlava di libertà e di autonomia al fine della costruzione di una vera indipendenza del bambino. Questo metodo punta alla socializzazione. In molti stati esteri è ben conosciuto e molte realtà si rifanno a questo metodo. C’è stato un momento storico in cui Montessori in Italia ha conosciuto fama e gloria ma poi è stata trascurata. Ai giorni nostri credo che ci sia ancora un certo retaggio rispetto all’idea stessa del metodo, perché prevale un’idea di omologazione piuttosto che di differenziazione delle competenze. Non si riesce a rispondere adeguatamente ai bisogni singoli ma risulta più semplice dare una risposta complessiva, che, in quanto tale, non può essere la risposta giusta, visto che ogni bambino è diverso così come lo è ogni adulto e ogni anziano affetto da demenza.

11. Con i modelli familiari attuali, è possibile un inserimento dell’anziano “malato”, nella società e magari nel suo nucleo d’origine, oppure meglio una struttura di sostegno? 

Ogni famiglia è diversa, con esigenze e situazioni molto particolari, per cui diventa difficile generalizzare. Statisticamente sono spesso le mogli le prime caregiver dei mariti malati, per poi passare ai figli, spesso donne. Anche in questo caso, a livello sociale, si riscontra ancora una presa in carico maggiore da parte della donna rispetto all’uomo. Inoltre, oggi le famiglie sono impegnate professionalmente, senza una rete di persone a loro accanto e spesso i servizi mancano anche per l’infanzia, per cui pensare che dei figli si facciano carico anche dei propri genitori anziani in casa non è sempre una scelta percorribile a livello economico, emotivo, ma soprattutto assistenziale. La possibilità di restare nella propria casa – dove si è vissuti e si sono conservati gli affetti di una vita – dovrebbe essere la scelta percorribile nella maggioranza dei casi, magari sostenendo questa permanenza attraverso l’aiuto di una persona esterna, che tuttavia non è sempre accettato dall’anziano e non sempre è gestibile con il progredire della malattia. Attualmente anche in Italia si assistono ad interessanti progetti di cohousing per persone anziane che, ancora nel pieno delle loro competenze, scelgono di poter mantenere la loro privacy ed autonomia in un contesto di maggiore sicurezza e tutela fino al progredire della malattia, per poi arrivare a strutture di sostegno mirate.

12. C’è un rapportarsi al paziente anziano, con poco rispetto secondo te della persona, come si può ritornare ad avere strutture e personale sanitario attente più’ ai pazienti che alle patologie?

 

Il pensiero di oggi rispetto al tema della demenza è cresciuto in esperienza rispetto al passato. Dal punto di vista dell’assistenza siamo passati da un modello prettamente medico, degli anni ‘50, dove esisteva la malattia che prevedeva una cura o la prevenzione, poi siamo passati negli anni ‘70 ad un’idea diversa: la visione era più quella della disabilità, del deficit, per cui la riabilitazione e la compensazione diventavano le strategie più in voga. Ad oggi, invece, i modelli sono più di tipo psicosociale, rivolti alle persone più che alla malattia in sé, con l’obiettivo di lavorare più sul vero supporto alla persona come individuo. Questo significa che non si accantona la malattia ma si guarda alla persona. Rogers, Erikson, Kitwood (pensiamo al suo modello CCP ovvero alla “cura centrata sulla persona”), sono solo alcuni dei precursori di un modello che va verso la persona come individuo piuttosto che concentrarsi sulla malattia. Insomma, la demenza è molto di più una compromissione neurologica e credo che questa nuova visione d’insieme si stia facendo strada e che molte realtà e professionisti stiano andando verso questa direzione. 

 

 

13. Nel tuo libro fai rifermento a pazienti con i quali hai lavorato direttamente, incontrare c’è qualcuno che ti ha particolarmente colpita e perché?

 

Ce ne sono stati molti, ma sicuramente il primo paziente con cui mi sono relazionata è quello di cui parlo nel libro, proprio all’inizio. È stata un’esperienza molto forte e sotto certi aspetti dolorosa. Trovarsi a che fare con un essere umano che ha sofferto così tanto nella sua vita, che ha passato la sua intera esistenza all’interno di un ospedale psichiatrico fin dall’infanzia, credo che rappresenti un’esperienza che non si può dimenticare. Quello rappresentava il fallimento della cura, del sostegno dell’essere umano.

 

 

14. In un mondo che va di fretta, siamo capaci di prenderci "cura” veramente di qualcuno o abbiamo perso questo significato?

 

È difficile, ma i bambini e gli anziani ce lo insegnano di continuo. Sta a noi saperlo cogliere. Ciò che è essenziale dovrebbe rappresentare il centro della nostra vita, mentre il più delle volte siamo alla ricerca di ciò che non lo è. “Gioca con me mamma”, oppure “leggimi una storia”, sono richieste di attenzione e di un bisogno di tempo di qualità da trascorrere insieme che non vanno trascurate. Anche piccole e semplici domande da porre all’anziano possono indurlo ad aprirsi all’ascolto e questo rappresenta quell’essenziale a cui dobbiamo tornare.

 

 

15. Che progetti intendi sviluppare con questo tuo lavoro?

 

Questa è una goccia, ma come ogni goccia lascia un segno e può allargarsi. Spero di potere far conoscere il più possibile questo pensiero che permette una nuova visione di cura. Una persona che acquisisce un modello di aiuto verso l’altro può diventare lei stessa promotrice del cambiamento, sia che si tratti di una famiglia che di una struttura oppure di un servizio territoriale. In questo momento questo libro rappresenta questo tentativo e questa speranza.

 

 

Anita Avoncelli

“Intuizioni montessoriane per la demenza. Una nuova visione di cura”

Edizioni Dapero

www.editricedapero.it

 

In alto a destra la copertina del libro