sandroSandro Cattacin è direttore dell’Istituto di ricerca sociologiche dell’università di Ginevra nonché docente di sociologia. Autore di diversi articoli e libri, l’ultimo in uscita dal titolo  

“Covid-19 Le regard de sciences sociale”, ha analizzato con noi, da sociologo il periodo particolare che stiamo vivendo a contatto con un virus che ha stravolto le nostre regole sociali e la nostra quotidianità. 

 

Professore, da sociologo, come si è approcciato a studiare gli effetti del Covid, sulla popolazione , un virus che non ha fatto nessuno distinzione territoriale, sociale…

All’inizio è vero è stato cosi il Covid, non fa fatto grandi distinzioni ma poi abbiamo visto come non ha  ha colpito tutti nello stesso modo. Ci ha distinti poco all’inizio e poi sempre di più dopo, evidenziando forti differenze tra  le aere più’ povere  a quelle più ricche agli Stati liberi da quelli autoritari…

Lei personalmente come ha vissuto il lock down a Ginevra? Non si è sentito un pò privilegiato visto che è un ricercatore, era già abituato a lavorare da solo, senza avere tanti contatti?

Personalmente è stato un periodo difficile, insegno tre  mesi l’anno e il lock down è capitato proprio in quel periodo di insegnamento. Mi sono trovato ad organizzare lezioni on line a classi grandi,  perché il primo anno i numeri degli studenti possono arrivare fino a 200 , quindi numeri  importanti. Le lezioni frontali sono diventate lezioni on line e con gli studenti ho perso quel contatto necessario per la nostra disciplina, difficile parlare di sociologia quando si è dietro lo schermo di un computer. 

Nei periodo di lock down tornavo a casa una volta a settimana, e con tutte le precauzioni del caso, quindi anche i miei rapporti famigliari ne hanno sicuramente risentito.

Dopo ne ho risentito come ricercatore, perché, con il mio team di lavoro, che è composto da quindici persone, abbiamo discusso anche per esempio al nuovo libro, “Covid-19 Le regard de sciences sociale”, mai di persona, e questo ha complicato e allungato la stesura, la discussione maggiore è stata su che tempi trattare, come suddividere in capitoli una pandemia che ha sconvolto la vita di tutti senza distinzione. 

librocattaDa docente, come hanno vissuto i suoi studenti il periodo di reclusione?

Da noi la situazione è stata gravissima noi siamo ricercatori empirici,  di solito analizziamo, facciamo interviste, ci rincontriamo per discutere dei risultati e queste metodologie sembravano da un giorno all’altro non più utilizzabili. Siamo passati ad un insegnamento ravvicinato e personalizzato ad uno freddo distaccato e questo  è stato l inizio della riflessione per sviluppare poi il libro, dove noi studiosi abbiamo confermiamo la nostra volontà di esserci e lavorare anche in questa emergenza

Per quanto riguarda gli studenti si devono distinguere due gruppi, gli svizzeri che abitano vicino Ginevra, con i familiari, amici e congiunti , e gli stranieri lontani da casa.

I primi sicuramente più privilegiati, hanno mantenuto i contatti familiari quotidiani e magari li hanno rafforzati, mentre gli studenti stranieri,  sono stati male, perché l’ università è il posto dove si incontrano dove vivono, diventa la loro casa,  dove mangiano e studiano anche li in gruppi si sono trovati magari a vivere in una stanza condivisa con un altro studente, in spazi piccoli quindi, lontani per tanto tempo, dai loro affetti. Credo che il lock down sia stato più difficile per loro.  Gli studenti internazionali stavano sicuramente peggio, per i giovani è difficile vivere una situazione di limitazione di libertà, quindi poi di notte magari si incontravano di nascosto trasgredendo qualche regola. 

Questo imparare ed insegnare a distanza aumenta le ore di lavoro per tutti sia per gli insegnati che per gli studenti al punto che il tempo libero non esiste più, un periodo pesante sotto molti punti di vista.

Noi in Svizzera abbiamo avuto misure liberali a confronto di altri stati, come ci siamo comportati dal punto di vista sociologico?

Noi in Svizzera abbiamo avuto un lock down liberale, a parte nei cantoni di confine, dal punto di vista psicologico  abbiamo sentito il questo periodo di chiusura come meno imposto, ma io che lavoravo a Ginevra ho sentito la forte differenza quando mi muovevo in Svizzera notavo come nei cantoni interni la popolazione aveva un percezione diversa del COVID .

Il Covid ha cambiato il nostro modo di vedersi di salutarsi, da un giorno all’altro e  c’era anche il panico, nell’incontrare l’altro. 

il lock down è stato vissuto  meglio  in Svizzera, perché  si comunicava  regolarmente ,quando i politici e i virologi dicevano “ non sappiamo come andrà”, è stato un messaggio importante per far capire alla popolazione che eravamo in una crisi grave ma la comunicazione in questo paese è stata fatta bene, e poi gli svizzeri hanno una tradizioni di federalismo, di sussidiarietà, il cittadino da noi non è abituato che sia la politica a dirgli cosa fare, c’è una forte responsabilità individuale, c’è molta iniziativa della società civile di mobilitazione di aiuto, traduzione di fiducia verso le istituzioni che viene dalla Storia come conseguenza che si prende in mano la situazione prima che lo faccia lo Stato. 

Si è visto anche come ha funzionato la socialità e l’aiuto tra le persone, anche se non organizzato dall’alto. I cittadini sono responsabili e c’è stato un aiuto reciproco dove i giovani portavano la spesa agli anziani e alle categorie a rischio, dove Caritas ha supportato le famiglie e le persone meno abbienti, certo il Covid ha messo meno più’ in evidenza le disparità sociali, ma c’e’ stata una grande mobilitazione, spontanea senza imposizione. 

Al suo ultimo libro in quanti hanno collaborato?

Molti studiosi hanno collaborato perché abbiamo deciso di dare un’ampio spazio a tanti temi, la famiglia, gli anziani ,  i giovani, poi abbiamo affrontato i tema delicato e sempre in discussione di che cosa è la mascherina, che cosa significa portarla…tra due anni faremo un bilancio di quello che è successo e partiremo proprio da questa pubblicazione 

Che cosa da sociologo prevede per il  prossimo futuro?

Dobbiamo  imparare a vivere con dei rischi, il Covid ma anche il terrorismo, i  rischi ambientali, le calamità naturali , cosa significa andare nei mercati affollati e a quali rischi posso espormi , sono tutti fattori che da 30 e 40 anni entrano nella coscienza della persona, pericoli dei quali siamo coscienti e responsabili.

Se un soggetto pensa “ uscire mi espone a dei rischi” non può essere pericoloso, non può magari poi indurci a rimanere in casa e vivere il lock down senza necessità? 

Rinchiudersi è una reazione istintiva di tante persone, soprattutto per chi vive negli agglomerati fuori dai centri urbani. Dove si vive in quartieri dormitorio e la socialità è già ridotta al minimo. La sera al rientro ci si rinchiude a casa e si guarda la televisione, è una scelta che può provocare una chiusura regolare e considerarla normalità.

Tutte le offerte di socialità si sono improvvisamente cancellate o ridotte...

Si noi dobbiamo imparare a vivere la socialità in modo diverso magari avremo incontri più distanziati , non ci baceremo, ma  questa moda dei tre baci è recente in passato ci si incontrava anche tra amici , ma si tenevano le distanze quindi una riapertura non parte da un punto di vista di sfiducia ma di ragionevolezza . 

Abbiamo società dove le distanze sono una regola tra le persone, come in Giappone, per esempio, più siamo stretti più stiamo attenti a non toccare l’altro. Le faccio come esempio  Edward Hall  che negli anni ottanta aveva già studiato le distanze sociali e lavorava in modo empirico guardando come la gente si posiziona in modo automatico negli spazi, e lui ha calcolato che la distanza sociale è diversa da quella intima e quindi il metro mezzo e due metri, sono già dentro di noi, se abbiamo spazio, non ci posizioniamo vicino agli altri. Noi siamo programmati alla distanza a nessuno piace dividere spazi piccoli con estranei con le conseguenze del caso. Per sentirci più sicuri, la distanza ci aiuta, per esempio  avere qualcuno che ci fiata dietro il collo infastidisce   oggi ma anche 10 anni fa. Ovviamente è importante trovare la socialità il contatto fisico nelle relazioni tra la gente, ognuno ne deve essere consapevole e responsabile. 

L’uso della mascherina ha già cambiato il nostro linguaggio del corpo?

Si, l’incontro è  diventato problematico perché abbiamo un contatto con l’altro dove abbiamo ristretto il nostro viso,  e l’unica cosa che resta libera sono gli occhi. Guardarsi negli occhi è considerata come un’ aggressione perché di solito quando guardiamo in faccia una persona gli occhi sono quelli meno visti, guardi negli occhi qualcuno quando lo ami o vuoi dimostrare un forte interesse, con la mascherina siamo obbligati a guardaci negli occhi e contatti superficiali e fugaci non possono sostituire l’occhio. C’è una deumanizzazione del vivere insieme.

Certo è che l’uso della mascherina è una presa di coscienza e responsabilità sociale, molto importante per il momento che stiamo vivendo.